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USCITA DALL’EURO CONSEGUENZE

I passaggi tecnici

Cosa potrebbe accadere se l’Italia decidesse di uscire dall’euro, che per i trattati Ue è «irreversibile»? Passare da una moneta a un’altra non è come accendere o spegnere un interruttore. Ci sarebbero passaggi tecnici complessi, dal ritiro della vecchia moneta all’immissione in circolazione della nuova. Ci sarebbero conseguenze politiche, implicite nei trattati: euro e adesione all’Unione sono strettamente legati. Abbandonare l’Ue avrebbe serie conseguenze, come il Regno Unito sta sperimentando. Poi c’è l’impatto su famiglie e imprese, sul debito pubblico, sulla capacità dello Stato di finanziarsi, legata alla fiducia, e le possibili reazioni degli investitori. Quali ipotetici vantaggi e svantaggi?

Bisognerebbe fare i conti con la svalutazione, di cui l’export beneficerebbe ma nello stesso tempo l’import sarebbe penalizzato. Lo Stato potrebbe stampare quanta moneta vuole e nutrire il debito pubblico. Però il potere d’acquisto di dipendenti e pensionati, per l’inflazione galoppante, si contrarrebbe. E nell’imminenza del cambio andrebbero evitate situazioni drammatiche come quelle viste in Grecia, con le file ai bancomat per prelevare euro, che a conversione avvenuta varranno più della nuova lira. Ecco in modo semplificato lo scenario, partendo dall’assunto che l’Italia continuerebbe a finanziarsi sui mercati. Grecia e Argentina, a causa dell’alto debito, hanno invece fatto default.

L’uscita dall’euro

La premessa è che per i trattati europei la moneta unica è «irreversibile», lo ha ricordato in più occasioni anche il presidente della Bce, Mario Draghi. Inoltre euro e Ue sono legati. «Il Trattato di Lisbona — spiega Justin Frosini, professore associato di diritto pubblico comparato all’Università Bocconi — stabilisce che qualsiasi Paese voglia diventare membro dell’Ue deve sposare l’idea di adottare l’euro. Quindi per l’Italia si prospetterebbe un’uscita, che andrebbe negoziata come sta facendo la Gran Bretagna. Ma l’Italia è un Paese fondatore…». Tenuto conto di questo, se l’Italia decidesse comunque di uscire dall’euro e di tornare alla lira cosa accadrebbe? Partiamo dal presupposto di un’uscita «ordinata» e dunque pianificata. Non di una perdita di accesso ai mercati causata dal crollo della fiducia degli investitori che temono di non venire più ripagati per effetto dell’alto debito pubblico.

Dunque, anche se dovesse essere il risultato di una decisione parlamentare, il momento del passaggio dall’euro alla lira dovrebbe avvenire «all’improvviso» per non creare una crisi di liquidità. E poiché il destino della nuova moneta sarebbe la svalutazione, per evitare le file agli sportelli da parte dei risparmiatori che vogliono prelevare il contante in euro, così come la fuga degli investitori (che in qualche modo ci sarà, di fronte all’incertezza), il passaggio dovrebbe essere improvviso. Le banche infatti hanno una liquidità inferiore rispetto a quanto depositato. Non è escluso quindi il congelamento dei depositi per un brevissimo lasso di tempo per consentire il passaggio senza traumi. Stampare la nuova moneta, ritirare la vecchia e adeguare tutti i sistemi avrà inoltre dei costi non indifferenti

Il potere d’acquisto dei risparmiatori

Che vantaggio avremmo da un ritorno alla sovranità monetaria? L’Italia, fuori dall’euro e dall’Ue, non dovrebbe più rispettare le regole e i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles, quindi niente più patto di Stabilità, né tetto al deficit né obbligo di riduzione del debito pubblico, che al momento ammonta a 2.302 miliardi di euro, il secondo più alto dell’Unione Europea in rapporto al Pil (131,8%), dietro a quello greco. Ma soprattutto lo Stato sarebbe libero di stampare quante banconote vuole per nutrire il proprio debito. L’effetto immediato, quando circola troppa moneta, è però la crescita dell’inflazione (acquisita ad aprile per il 2018 allo 0,7% secondo l’Istat) che rischierebbe di arrivare alla doppia cifra come avvenuto negli anni Settanta e Ottanta (nel 1980 superò il 21%), quando il debito pubblico esplose.

Tuttavia con l’impennata dell’inflazione lo Stato ci guadagnerebbe, anche qualora la sua esposizione fosse stata convertita in lire con un cambio iniziale «1 a 1» (1 euro uguale 1 nuova lira). Mentre a perdere sarebbero i risparmiatori, i fondi pensione e gli investitori istituzionali che hanno comprato Bot e Btp perché il valore in termini di potere d’acquisto del debito sarà eroso dall’inflazione. Insomma, gli italiani che hanno messo i loro risparmi in titoli di Stato sarebbero penalizzati. È come se venisse introdotta di fatto una tassa patrimoniale. Sul lungo periodo si andrebbe a creare comunque un problema di credibilità sui mercati per lo Stato italiano. Gli investitori per prestarci i soldi chiederebbero interessi molto più alti. E le imprese sarebbero costrette a fare i conti con il «rischio Paese» per finanziarsi a loro volta sui mercati.

 

Lavoratori e pensionati

Svalutazione e inflazione galoppante presenteranno il conto soprattutto a chi ha entrate fisse: lavoratori dipendenti e pensionati rischiano di vedere il proprio potere d’acquisto ridotto, a meno che stipendi e assegni previdenziali non vengano aumentati. Con una lira svalutata i beni di consumo importati costeranno di più. Bisogna tenere presente che la maggior parte dei nostri prodotti ha una componente importata. Non abbiamo materie prime né fonti energetiche sufficienti, e finché le rinnovabili non basteranno a coprire l’intera domanda e non saranno più intermittenti, dovremo continuare a comprare il gas e il petrolio dall’estero ma a prezzi molto più alti degli attuali. Poi c’è il capitolo finanziamenti e mutui.

Fondamentale sarà il tasso di cambio, poiché sono stati sottoscritti in euro. È possibile che gli istituti di credito contemplino una rinegoziazione delle condizioni. Ma se il valore resta quello in euro, ripagare il mutuo costerà di più perché lo stipendio subirà la svalutazione della nuova moneta. Mentre se fosse applicato un cambio «1 a 1» allora il debitore avrebbe un vantaggio nella svalutazione, così come lo Stato ci guadagnerebbe a livello di debito pubblico, ma le banche si troverebbero in una situazione complicata, dal momento che è possibile che a loro volta si siano finanziate all’estero per erogare quei mutui. È probabile che i nuovi costi vengano scaricati a valle sul conto corrente e sui correntisti. Senza considerare il rischio di contenziosi in caso di cambio delle regole in corsa. Insomma, l’inflazione galoppante non ha mai fatto bene a dipendenti e pensionati. Con il ritorno alla lira le regole non cambiano.

 

I rischi per le aziende

Il ritorno alla lira piace molto agli imprenditori perché nella svalutazione della moneta vedono un’opportunità per tornare a essere competitivi sui mercati internazionali e, semplificando, per giocarsi la partita con i colleghi tedeschi o francesi che non scontano il «rischio Paese». In linea teorica è così, ma in pratica non del tutto. Specie se si guarda al tessuto industriale che caratterizza il nostro Paese. Nelle catene globali del valore l’effetto della svalutazione competitiva è attenuata per chi fa prodotti ad alto valore aggiunto: innovazione e qualità sono i driver, che richiedono importanti investimenti in ricerca. Per i big che si finanziano in Borsa il «rischio Paese» continuerà ad avere un peso.

La svalutazione incide invece su chi fa prodotti poco sofisticati e a basso valore aggiunto. Ma in questo caso la concorrenza è rappresentata dalla Cina e da quei Paesi in cui i costi di produzione sono bassissimi e difficilmente replicabili in Italia. Le nostre aziende potranno dunque avvantaggiarsi della svalutazione della moneta, ma dovranno fare i conti con l’aumento dei costi dei beni importati che lievitando concorreranno a ridurre la competitività finale. Bisogna aggiungere anche il fattore salari. Se per effetto dell’inflazione le imprese saranno costrette ad aumentare gli stipendi per adeguarli al costo della vita, si vedranno erodere ulteriormente il vantaggio rappresentato dalla svalutazione. Comunque, semplificando, chi esporta continuerà a esportare, ma chi ha nel mercato interno la propria fonte di ricavi dovrà fare i conti con il potere d’acquisto ridotto delle famiglie, in una spirale che anziché spingere i consumi rischierà di frenarli.

 

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