LA NUOVA AGENDA DEL PD

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di Gianni Cuperlo

“Ho letto che Papa Francesco, quando era arcivescovo di Buenos Aires, confessava agli intimi che frequentando i palazzi curiali rischiava di perdere la fede.

Forse vale un po’ anche per noi.

Nel senso che viviamo un tempo complicato – grandioso e terribile assieme – dove la politica spesso si riduce a una bolla.

Qualcosa dove il ricatto della cronaca (e persino dell’istante) cancella il bisogno di comprendere e governare la complessità.

Qualche cenno su questo lo ha fatto Walter su Repubblica e mi chiedo se non sia la vera questione che abbiamo davanti.

In uno degli ultimi numeri di Limes (tutto dedicato a Bergoglio) la tesi appare estrema anche a chi non è interno a quel mondo.

Si sostiene che l’esito del radicalismo di questo pontificato possa essere l’emancipazione della Chiesa dal Vaticano.

Qualcosa di impensabile, direi di irrazionale, se utilizziamo le categorie tipiche del nostro modo di pensare.

Ma anche qualcosa di concreto se invece collochiamo questo Papa (e i suoi moltissimi nemici) nella realtà di un mondo capovolto.

Forse in questa capacità (o eresia) di leggere il mondo c’è anche una chiave di senso per noi e per il destino che ci investe se solo alziamo gli occhi sull’Europa e sulla nuova destra.

Per la Chiesa cattolica uscire da Roma vorrebbe dire emanciparsi da un assetto che per secoli ha regolato la vita di quella istituzione.

I suoi riti.

Le sue gerarchie.

In questo senso appare più chiara, nella simbologia, anche la scelta di questo Papa di trasferire la sua esistenza (a partire dalla fisicità di sé) fuori dal Palazzo apostolico, nella palazzina periferica di Santa Marta.

Ora non si tratta – lo dico a scanso di una lettura inutile – di assumere Papa Francesco come riferimento di ciò che la politica non è in grado di fare.

Sarebbe una mancanza di rispetto nei suoi e nei nostri confronti.

Anche perché questo Papa, da gesuita, non può che essere allo stesso tempo un rivoluzionario e un conservatore.

C’è il lui la forza rivoluzionaria di chi vuole condurre il cattolicesimo alle sue radici “perseguendo l’ideale delle prime comunità cristiane”.

Ma è anche un conservatore nella difesa di premesse non negoziabili.

Il punto, però, è la sua missione storica: rifondare una Chiesa missionaria globale (emancipando quella Chiesa dal clericalismo).

La Rivoluzione è qui: nel contestare per la prima volta un sistema teologico e mondano fondato da secoli sulla legittimazione reciproca tra poteri politici e potere ecclesiastico.

Che, tradotto, vuol dire una Chiesa che esce dall’Occidente, dall’eurocentrismo.

Una nuova Chiesa che leghi come mai è avvenuto Nord e Sud del mondo.

Fine della parentesi.

Ma perché ci riguarda?

Credo per una ragione semplice da dire e terribilmente difficile da fare.

Perché la sinistra che ha davanti l’incubo di una destra sconosciuta per tutta la seconda metà del ‘900 ha un solo modo per arginare quell’onda: ed è rovesciare radicalmente le sue – le nostre – categorie.

Abbandonare una discussione a questo punto patetica sulla quota di giusto che era presente nel Jobs act o nella nuova costituzione.

Su quelle riforme io non ho mutato il mio giudizio: ma ora non conta questo.

Adesso conta capire se noi possediamo l’arma che uccide il leone.

E dobbiamo capirlo di fronte a due verità che non possiamo negare.

La prima è che la crisi dell’Europa è completamente iscritta nella sua debolezza.

L’Ungheria, come la Polonia, di questa Unione Europea è parte integrante.

Il capo di quel paese spiega che i valori liberali dell’Occidente includono “corruzione, sesso, violenza”.

E che di conseguenza si possa – anzi si debba – limitare la libertà di stampa e di opinione; l’autonomia delle università, l’indipendenza della magistratura.

Questo vuol dire che di fatto quella ungherese non è più una democrazia.

Ma allora, (e senza scomodare quel grande storico che alla domanda “dove finisce l’Europa?”, replicava: “L’Europa termina dove finiscono i valori della sua civiltà”), ecco, più prosaicamente: cosa ci fa l’Ungheria oggi in Europa?

O meglio, come può la civiltà democratica dell’Europa convivere con la cultura illiberale che sta piagando l’Est del continente, e non solo?

E come possiamo anche solo immaginare che la competizione il prossimo 26 maggio sia tra la difesa della democrazia liberale e una cultura che non è populismo, non è sovranismo, ma si chiama “nazionalismo” e affonda nel terreno seminato dai totalitarismi della destra nel XX secolo?

Se fossimo su quel bastimento famoso, questo sarebbe l’iceberg davanti a noi.

Siamo in grado di scansarlo?

O di abbatterlo (ammesso che un iceberg si possa abbattere)?

Diamo una risposta a questa domanda.

Qui e ora: perché tutto il resto viene dopo.

E allora quel congresso che io penso vada fatto presto, metta al centro questo nodo.

Assieme all’altra verità.

Che è il fallimento politico – fallimento storico, non tecnico – della moneta unica.

Dirlo non è una eresia.

Dall’euro non si può e non si deve uscire.

Solamente pensarlo è una follia.

Ma la riuscita tecnica di quella operazione (l’euro è una valuta forte e richiesta) non può nascondere il tracollo politico delle ragioni che avevano reso possibile – e persino necessaria – la sua invenzione.

Se lo dico è perché di fonte a quell’iceberg noi non possiamo essere i difensori dell’Europa che c’è.

Saremmo spazzati via.

Noi abbiamo una sola speranza di vincere questa sfida.

Ed è rivoluzionare – come il Papa di Roma ma che Roma scomunica – dicevo, rivoluzionare la nostra agenda sociale.

Non sarà l’ulivismo degli anni ’90 a salvarci.

Ma neppure il keynesismo degli anni ‘30.

Non basteranno le ricette sugli investimenti pubblici – del tutto necessari – come volano di quelli privati.

E meno che mai, basterà la retorica (sacrosanta) sul diritto al lavoro come accesso alla dignità.

Servirà altro.

Servirà scomodare un pensare un po’ più eretico.

Sul reddito di base.

Sulla struttura da rifondare del nostro welfare.

Sulle migrazioni: uscendo dall’idea angusta che riducendo gli sbarchi si poteva suturare la ferita.

Quelle torture mostrate l’altro ieri su corpi violati nei lager libici dicono che se insegui il tuo avversario sul suo terreno ti può capitare di risvegliarti senza i voti.

Ma soprattutto senza un’anima.

Ho finito, ma vorrei dire che al congresso penso si debba arrivare con questo coraggio.

E con la radicalità di una discontinuità profonda.

Di impianto culturale.

Linguaggio.

Politiche.

Di leadership e classi dirigenti.

E col coraggio di dire che è stato un errore clamoroso tifare per la saldatura delle due forze uscite vincenti dal voto.

Il punto non era fare un governo con Di Maio, ma far esplodere le contraddizioni di quel movimento.

Adesso il punto non sono le intemperanze di Salvini.

Il punto è il pericolo che quel Contratto già pieno di acciacchi, nel segno del potere possa tradursi in una alleanza politica.

In una Lega a 5 Stelle, come ha scritto Diamanti.

Perché quello sì, sarebbe un punto di non ritorno: con la nascita nel cuore dell’Occidente della prima formazione radicale, di destra e di massa dopo la fine del secondo conflitto mondiale.

Impedirlo diventa da qui in avanti la nostra bussola.

E – se posso dirlo – il nostro dovere morale di democratici.

Meno di questo e staremo a discutere del metodo.

Quanto allargare la coalizione.

Se cambiare nome al partito.

Il renzismo è stato un tentativo di modernizzare il Paese ma è drammaticamente fallito.

Sconfessato nelle urne e nel sentimento di milioni di donne e uomini della sinistra.

Recuperare quel consenso si può. Direi che si deve.

Ma farlo nel solco tracciato non è più un disegno velleitario.

Oggi è un dolo.

La sinistra – dentro e fuori il Pd – a questo appuntamento deve arrivare in piedi.

Perché ci sono passaggi che solamente l’etica della politica può affrontare.

Non gli interessi dei singoli.

Ma l’etica di un pensiero e un’azione collettivi.

Penso che dobbiamo essere all’altezza di questa prova.

Almeno per un motivo.

Per non doverci pentire domani: non dei peccati che abbiamo compiuto.

Ma dei peccati che non abbiamo avuto il coraggio di compiere.