PARTITI SENZA SOCIETA’ E SOCIETA’ CIVILE SENZA PARTITI

Pubblicato il 22 Gennaio, 2020

Il contributo di Chiara Saraceno al dibattito sul pezzo “Se i neoliberisti si alleano con i sovranisti“.

L’Italia è piena di esperienze di “lavoro cooperativo di cittadinanza”: quello di associazioni, reti, biblioteche, in alcuni casi anche imprese, che cercano di costruire una società più giusta e più vivibile. Rafforzare queste esperienze, dare loro spazio, continuità e voce è necessario affinchè riescano a pesare sull’agenda pubblica. 
L’apparizione delle “sardine” sulla scena pubblica, fisicamente, nelle piazze, come quella dei ragazzi (ma anche di persone di ogni età) dei Fridays for future è stata giustamente salutata come indicatore dell’esistenza di una società civile che pretende il diritto, ma anche la responsabilitàdella presa di parola, della partecipazione alla definizione dell’agenda politica e sociale, una società civile che fatica a trovare interlocutori, e a riconoscersi, nell’offerta politica esistente, anche a sinistra.

Ma, per quanto importanti come segnale di una “presa di parola” da parte di una quota significativa di cittadini, anche fenomeni come le “sardine”, i Fridays for future e tutte le mobilitazioni pubbliche in favore o contro determinati problemi, scelte, comportamenti, non basterebbero a costruire quella cultura e pratica della cittadinanza consapevole, responsabile, “attiva” e solidale nella quotidianità e che ha a cuore non solo i singoli issue, ma la giustizia sociale come orizzonte entro cui vanno affrontati. Eppure questo è l’unico orizzonte che può distinguere una cultura e una pratica politica di sinistra, permettendo anche di affrontare le questioni, i bisogni, i disagi che, per essere stati troppo a lungo ignorati, quando non disprezzati, anche dalla sinistra, spingono molti verso le sirene del populismo e del “prima gli italiani”: gli “spaventati” e/o “incattiviti” di cui parla Barca nel suo intervento.

Senza sottovalutare l’importanza di movimenti come le “sardine” o i Fridays for future, conviene allagare lo sguardo ad altri luoghi in cui una cultura e pratica della cittadinanza come costruzione cooperativa e solidale del bene comune emerge nelle attività che molti cittadini in modo organizzato e cooperativo svolgono nelle e per le loro comunità. Non, o non solo, in sostituzione di servizi pubblici mancanti, ma perché sono consapevoli che anche l’amministrazione pubblica meglio organizzata e il welfare pubblico più generoso non possono, e neppure dovrebbero, sostituirsi ai cittadini nell’individuazione dei loro bisogni, nella costruzione di relazioni significative e di contesti socialmente sicuri perché innervati da relazioni di cooperazione e fiducia reciproci, che possono anche legittimare forme di controllo e monitoraggio orizzontale. Uno degli errori storici della sinistra a livello culturale, anche se nella pratica le cose andavano diversamente, è stata la sottovalutazione, quando non il sospetto, dell’importanza dell’agire collettivo civico, non solo quando inquadrato in partiti e sindacati. Del surplus di valore, significato, bene collettivo, senso di appartenenza e identità che esso produce. Per altro, anche l’appartenenza ad associazioni di partito, il lavoro volontario a livello locale per il partito (si pensi alla mobilitazione di energie individuali e collettive dietro le feste dell’Unità di una volta) o per sostenere persone e comunità sconosciute e lontane (si pensi all’accoglimento di centinaia di bambini poveri del Mezzogiorno nelle famiglie comuniste e democristiane  emiliane e venete nei rimi anni Cinquanta) travalicava il puro interesse e appartenenza di partito, anche se questo era capace, allora, di sollecitare la disponibilità per una generosa solidarietà e di mettere a disposizione le necessarie risorse organizzative. Per quelle donne e uomini, per quelle famiglie, era un modo di stare al mondo come cittadini, cercando di farne un luogo migliore per tutti, compensando in prima persona i danni delle disuguaglianze, come parte attiva della repubblica che, secondo il dettato costituzionale (art. 3, secondo comma) ha il dovere di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo delle capacità e alla partecipazione sociale e politica. Ciò facendo costruivano anche comunità locali solidali non in contrapposizione al ruolo dell’intervento pubblico. Non è un caso che là dove la cultura e pratica civica era più diffusa, oltre che più omogenea – qualunque fosse il colore politico prevalente – si è anche sviluppato il welfare locale più solido (e spesso innovativo). Gli studi sulla Terza Italia di Arnaldo Bagnasco hanno segnalato che, per un lungo periodo ormai finito, si è sviluppato anche un modello di sviluppo economico in cui la collaborazione tra amministrazione pubblica e iniziativa privata e tra (medie e piccole) imprese è stata particolarmente felice, oltre che unica nel suo genere.

Ciò che voglio dire è che anche quando i partiti erano forti e con una base sociale stabile e fortemente identificata, ciò che li faceva vivere non era solo la capacità di rappresentazione degli interessi. Era anche l’esercizio attivo di cittadinanza dei militanti e simpatizzanti, innanzitutto a favore ed entro le comunità locali. C’era l’esercizio della parola e dell’azione, anche se i partiti erano strutture fortemente gerarchiche. C’era una società civile con la sua voce e le sue pratiche, anche se queste non sempre erano adeguatamente riconosciute e valorizzate da partiti paternalistici anche con i propri militanti, oltre che in forte competizione le une con le altre. Ma erano queste pratiche, e il riconoscersi in esse, che davano forza e continuità alla appartenenza e alla stessa esistenza di un partito fatto di persone e luoghi concreti e diversificati, non solo di apparati e dirigenti.

Di pratiche di cittadinanza attiva a livello quotidiano e di cooperazione/costruzione di comunità l’Italia è ricca anche oggi, forse più di un tempo, in barba all’immagine del Censis di una società fatta da individui ripiegati su se stessi e sul proprio particolare, oltre che attratti dall’uomo forte. La novità è che queste pratiche nascono spesso al di fuori non solo dei partiti, ma anche delle grandi istituzioni del volontariato e del Terzo settore, che pure hanno un ruolo importante nella costruzione di una cultura civica fatta non solo di comportamenti corretti (pagare le tasse, non buttare cartacce per la strada, differenziare i rifiuti, non sprecare acqua, utilizzare con parsimonia l’auto e con correttezza i social, ecc.), ma di partecipazione al buon funzionamento e al benessere della comunità in cui si vive. Spesso vedono assieme soggetti pubblici, privati e semplici cittadini. Sono modalità di cooperazione che non si risolvono né in semplici azioni di supplenza, tantomeno di contracting out. Sono piuttosto forme di messa in comune di risorse e di possibili soluzioni, ove le competenze e responsabilità, ad esempio amministrative, di ciascuno rimangono, ma in funzione della migliore realizzazione dell’obiettivo comune, con effetti anche sulle modalità di azione e pensiero di ciascuna organizzazione. Morniroli, nell’articolo che si trova nel documento Cambiare la rotta, del Forum Disuguaglianze e Diversità (Laterza), cita esempi napoletani. Uno è un esempio di cooperazione tra diversi soggetti pubblici tradizionalmente separati – le scuole, l’assessorato all’istruzione, i servizi sociali di quartiere – e del terzo settore per il contrasto alla povertà educativa. Un altro è un esempio di attivazione e valorizzazione delle capacità di giovani nativi e non, a favore non solo degli stessi, ma della comunità locale, per tramite di una cooperativa sociale con finanziamento da parte di fondazioni bancarie, quindi di due realtà non profit. Molti esempi simili, in cui mentre si contrasta un disagio, si opera per liberare risorse nascoste o ignorate dei singoli e delle comunità, si possono trovare in giro per l’Italia. Ad esempio, si trovano nei comuni che accettano di essere luoghi di SPRAR, di accoglienza diffusa di rifugiati e richiedenti asilo, quando riescono a coinvolgere la comunità locale nelle sue articolazioni a cooperare per individuare bisogni, risorse, soluzioni, che servano ad integrare gli ospiti, ma vadano anche a beneficio degli abitanti locali. L’individuazione e l’attivazione delle risorse e delle capacità è, in effetti, un elemento chiave di queste iniziative, che aiuta a costruire rapporti orizzontali, tendenzialmente paritari anche quando si affronta il disagio. La Rete italiana di cultura popolare in questa prospettiva ha avviato da qualche anno una esperienza che ha chiamato “il Portale dei saperi” per fare emergere sia il saper fare (e il voler imparare) di chi si trova in condizione di svantaggio per storia migratoria, bassa scolarizzazione, storie di vita sfortunate, sia i bisogni dei territori locali che quei saperi, o quella voglia di imparare, possono intercettare, valorizzare. Non si tratta solo di fare incontrare domanda e offerta di lavoro, che per altro non è tra i compiti della Rete, ma di rendere visibili opportunità e possibilità di relazione. Ne sono scaturite esperienze interessanti di mobilitazione di energie e attività a livello locale anche al di là degli incontri tra domanda e offerta di lavoro. Anche alcune grandi aziende, sollecitate dall’esperienza a pensarsi come membri di comunità locali verso le quali hanno responsabilità per il solo fatto di esservisi insediate, oggi si pongono il problema di come essere parte di un processo di attivazione di comunità.

Non è solo la volontà di contrastare il disagio che mette in moto quello che chiamerei il lavoro cooperativo di cittadinanza per la costruzione di una società più giusta e più vivibile. Ci sono molti individui e singoli che dedicano tempo ed energie intellettuali per migliorare il contesto in cui vivono, vuoi a partire dal loro ruolo professionale, vuoi associandosi come cittadini. Penso, ad esempio, alle centinaia di associazioni culturali che, con risorse spesso minime, animano i dibattiti culturali in comuni anche piccoli, alle responsabili di biblioteche pubbliche che fanno della loro biblioteca luoghi di incontro e uso per soggetti di età e condizione sociale diversa, rendendola così di fatto e non solo di principio, bene collettivo. Penso alle associazioni di quartiere che si organizzano non solo per dividere le spese delle luminarie a Natale o per opporsi a qualche decisione sul traffico da parte dell’amministrazione pubblica, ma per connettere, mettere in relazioni cooperative i diversi soggetti che vi abitano ed operano, o ai cosiddetti “condomini solidali”.

Le esperienze di cittadinanza attiva sono dunque moltissime. Ma rischiano di rimanere nobili frammenti locali, senza possibilità di incidere sull’agenda politica, “sperimentazioni” la cui provvisorietà è talvolta incoraggiata dalla logica dei bandi che oggi sembra informare qualsiasi erogazione di denaro, pubblico o privato, al di fuori della spesa corrente. Senza che la “sperimentazione” sia messa mai in grado di produrre azioni strutturali, perché occorre passare ad altri bandi, ad altre sperimentazioni, in un paese in cui, per fare solo qualche esempio, i consultori famigliari devo affidarsi all’occasionalità dei bandi per offrire i servizi non sanitari – consulenza psicologica, legale, genitoriale – che pure dovrebbero essere presenti a norma di legge. Un paesi in cui la scuola a tempo pieno è stata sperimentata per oltre vent’anni, ma quando si è deciso di riorganizzare l’orario scolastico della scuola elementare si è adottato un altro modello e dove, come denuncia Marco Rossi Doria, il contrasto all’evasione e al fallimento scolastico è stato affrontato con decine di interventi sperimentali, cambiati ad ogni cambio di ministro, senza diventare mai azione strutturata basata su una valutazione delle conoscenze raccolte. E dove, aggiungo, oggi si pensa di affrontare la questione della povertà educativa con lo strumento di iniziative – per quanto meritorie – promosse e finanziate tramite bandi, perciò per definizione frammentate e provvisorie.

In questo contesto un po’ disperante, in cui anche i partiti di sinistra non sembrano avere un interesse o la capacità a creare condizioni di contesto perché queste esperienze, e le pratiche e cultura di cittadinanza che esprimono, circolino, diventino patrimonio comune, contribuiscano a formare l’agenda politica, è importante, come ha sottolineato Barca nel suo intervento, “la costruzione di alleanze fra organizzazioni o comunità territoriali di cittadini attivi, con l’obiettivo di produrre contenuti e proposte e battersi per esse”. Ciò può comportare il superamento non solo dei vincoli territoriali, ma anche, almeno fino a che non si entra in contraddizione con se stesse, delle diversità culturali, cercando quelle che sono gli interessi e le priorità comuni, per fare “massa critica” non solo in termini di quantità, ma perché si mettono in relazione attorno ad un interesse comune saperi, prospettive locali e culturali, mondi sociali altrimenti separati. Lo ha fatto e sta facendo Alleanza contro la povertà. Lo sta facendo Il Forum Disuguaglianze e Diversità. Sta iniziando a farlo l’Alleanza per l’infanzia. Lo stanno facendo i tavoli che raccolgono le associazioni che si occupano (anche o solo) di minori migranti o del monitoraggio dell’attuazione della carta dei diritti dei bambini e adolescenti, per citare solo alcuni esempi. È un modo per uscire dal particolarismo locale e culturale, senza perdere la concretezza e specificità delle esperienze e relazioni, ma individuandone le possibili trasversalità e generalizzazione in un’ottica universalistica. Non è facile, non solo perché ciascuna delle associazioni che compongono queste alleanze ha la propria storia e la propria identità, ma perché può esserci la tentazione di onnicomprensività monopolistica, con il rischio della competizione non solo tra singole associazioni, ma tra diverse reti e alleanze. Un rischio che va tenuto presente, ma che va corso se si vuole dare forza e continuità alle ricche esperienze di cittadinanza attiva solidale che ci sono nel nostro paese, rendendole interlocutrici indispensabili e non ignorabili di una agenda politica orientata alla giustizia sociale.