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CONTRATTO DI RICOLLOCAZIONE

Il comma 215 dell’articolo unico della legge di stabilità 2014 istituisce un fondo per il finanziamento e l’incentivazione delle politiche attive del lavoro e in particolare della sperimentazione di un assetto dei servizi per l’impiego incentrato su di un nuovo istituto giuridico: il contratto di ricollocazione. Vediamo di che cosa si tratta.
Finora, nel migliore dei casi a chi perde il posto senza ritrovarne un altro subito abbiamo offerto soltanto un sostegno del reddito: nella forma appropriata di un trattamento di disoccupazione o in quella inappropriata della Cassa integrazione, ma sempre senza che il beneficio fosse condizionato per davvero alla disponibilità per un nuovo lavoro e per tutte le attività necessarie per trovarlo.
Questa condizionalità del sostegno del reddito, in realtà, la legge già oggi la prevede; ma di fatto è del tutto inoperante. Il risultato è che fin qui abbiamo praticato soltanto le cosiddette politiche del lavoro passive – il sostegno del reddito, appunto – per le quali dal 2010 abbiamo speso oltre 20 miliardi l’anno. Sono invece mancate le politiche attive, quelle volte a promuovere efficacemente la ricollocazione del lavoratore. Ora, la sperimentazione del contratto di ricollocazione mira a consentire un collegamento stretto, proprio mediante l’applicazione della condizionalità, tra le politiche passive e le misure attive per il reinserimento del disoccupato nel tessuto produttivo.
Queste, in estrema sintesi, le linee-guida della sperimentazione (che non si traggono dal testo del comma 215 della legge di stabilità, ma dai lavori preparatori della norma e dalle prime Delibere di Giunte regionali che prevedono l’avvio dell’esperimento: prima fra tutte quella della Regione Lazio in tema di Youth Guarantee 30 dicembre 2013). Lo Stato si limita a porre a disposizione delle Regioni – che hanno la competenza legislativa e amministrativa in materia di servizi per l’impiego – la possibilità dell’esperimento: lo attiva solo la Regione che vuole utilizzarlo per riqualificare la propria spesa in questo settore. La Regione, a sua volta, con una delibera della Giunta, offre ai disoccupati la possibilità di stipulare il contratto di ricollocazione, mettendo sul piatto un voucher per la copertura del costo di un buon servizio di outplacement, cioè di assistenza intensiva nella ricerca del nuovo posto. Il voucher è suddiviso in una parte fissa e una, assai maggiore, pagabile soltanto a ricollocazione avvenuta. Il lavoratore può scegliere liberamente l’agenzia di cui avvalersi tra quelle accreditate presso la Regione: si attiva così un regime di positiva concorrenza tra le imprese accreditate.
Per neutralizzare il rischio che queste ultime si concentrino sulle persone più facilmente collocabili, lasciando perdere le altre, il progetto prevede che l’entità del voucher sia differenziata in relazione al grado di “collocabilità” di ciascuna persona, secondo i criteri che ciascuna Regione deciderà (alcune Regioni, come la Lombardia, hanno già una buona esperienza in questo campo).
Il contratto prevede inoltre l’affidamento della persona interessata a un tutor designato dall’agenzia, che ha il compito di assisterla giorno per giorno, ma anche di controllarne la disponibilità effettiva per tutto quanto è necessario ai fini della ricollocazione, compresi eventuali corsi di riqualificazione mirati. Nel caso di rifiuto ingiustificato di una iniziativa, o addirittura di un posto di lavoro, il tutor lo contesta al lavoratore. E alla contestazione – salva possibilità di impugnazione da parte del lavoratore davanti a un arbitro – consegue il dimezzamento dell’indennità; poi, la seconda volta, l’interruzione.
La novità più interessante di questo metodo – sperimentato con successo in Olanda – sta nel meccanismo di determinazione automaticamente equilibrata del grado della disponibilità che può e deve essere richiesta al disoccupato, in relazione alle condizioni del mercato del lavoro locale. Come si è visto, la figura chiave in questo meccanismo è il tutor, al quale il contratto di ricollocazione assegna il compito di stabilire le occasioni di occupazione, e i percorsi di formazione ad esse mirata, che il disoccupato non può ragionevolmente respingere, tenuto conto di tutte le circostanze. L’agenzia che per attirare più disoccupati applicasse criteri troppo compiacenti nei loro confronti si esporrebbe al rischio di non conseguire il risultato utile della loro ricollocazione effettiva, così lavorando in perdita: il voucher potrà infatti essere incassato soltanto a risultato ottenuto. Per altro verso, se l’agenzia stessa adottasse criteri di valutazione irragionevolmente severi, i disoccupati ne preferirebbero un’altra che, adottando criteri più ragionevoli, riesca tuttavia a ricollocarli in tempi accettabili. In altre parole, il regime di concorrenza che si instaura tra le agenzie accreditate tende a produrre l’equilibrio ottimale, proprio per la persona assistita, tra disponibilità del tutor a tener conto delle sue esigenze e aspirazioni, e prospettiva di un suo reinserimento rapido nel tessuto produttivo.
Al contratto di ricollocazione può partecipare anche l’impresa che licenzia, la quale può impegnarsi a pagare un trattamento complementare di disoccupazione. Così, per esempio, il lavoratore licenziato che stipula il contratto, invece di ricevere soltanto il 75 per cento dell’ultima retribuzione erogato dall’ASpI, riceve il 90 per cento. Comunque, se nella fase iniziale ci sarà un numero esiguo di persone interessate, questo consentirà alla Regione di “arricchire il piatto”, concentrando le risorse su un minor numero di casi.
Per valutare il costo del progetto, consideriamo il caso di una Regione nella quale si attivino 10.000 contratti di ricollocazione. Si può ipotizzare che il costo di un buon servizio di outplacement coperto dal voucher varii da un minimo di 2000 a un massimo di 4000 euro. Questo comporterebbe per la Regione, se tutti i contratti andassero a buon fine, un costo di circa 30 milioni. Può apparire un importo molto elevato; ma non se si fa il conto di quanto costa tenere, invece, quei 10.000 lavoratori in Cassa integrazione per due, tre, quattro o più anni; e di quanti miliardi oggi le Regioni spendono per corsi di formazione professionale privi di qualsiasi collegamento con la domanda effettiva espressa dal mercato del lavoro: la cui utilità effettiva non viene comunque quasi mai misurata.
È urgente che le Regioni incomincino a riqualificare questa spesa, anche spostandola in parte dalla formazione all’attività di placing. Poi ci sono i contributi del Fondo Sociale Europeo, di cui riusciamo a utilizzare mediamente soltanto il 40 per cento, per mancanza di progetti che abbiano i requisiti necessari; questo esperimento soddisferebbe pienamente quei requisiti. Poi ci sono i fondi UE per lo Youth Guarantee, il programma per l’aiuto intensivo all’inserimento nel tessuto produttivo dei giovani. Infine occorre considerare che tenere i lavoratori in Cassa integrazione per anni, come facciamo ora diffusamente, costa molto di più che inserirli nel giro di sei mesi nel grande flusso delle assunzioni: nel 2012, in Italia, nonostante la crisi nera, sono stati stipulati un milione e mezzo di contratti di lavoro a tempo indeterminato, abbastanza ben distribuiti fra nord, centro e sud.
Il contratto di ricollocazione può essere un modo molto efficace per dotare finalmente il mercato del lavoro italiano di servizi efficaci per l’incontro fra domanda e offerta, attraverso una cooperazione stretta tra i Centri per l’impiego pubblici e le imprese che in questo campo possiedono il migliore know-how specifico e sanno mettere a frutto il meglio delle esperienze straniere.
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